La Rosenstrasse è una viuzza sparente, schiacciata tra i palazzoni che danno sulla Karl Liebknecht Strasse, poco più di una scorciatoia per raggiungere il quartiere ebraico da Alexanderplatz. C’è una atmosfera da “cortile sul retro”, uno di quegli spazi di servizio dove non ti senti realmente autorizzato a stare e quindi ci passi in fretta, quasi per non farti vedere, e di conseguenza non ti guardi neppure intorno. Eppure proprio su questa via, nel febbraio e nel marzo 1943 si svolse l’unica protesta pubblica contro la deportazione degli ebrei.

 

Rosenstrasse Berlino

 

La Fabrik Aktion

In Rosenstrasse si trovava allora l’ufficio amministrativo della comunità ebraica di Berlino, e qui il 27 febbraio 1943 le SS rinchiusero un gruppo di uomini catturati sul posto di lavoro durante la cosiddetta “Fabrik Aktion”: i Nazisti avevano fino ad allora tollerato la presenza di ebrei condannati ai lavori forzati nelle fabbriche di armamenti tedeschi, ma già nel settembre 1942 Hitler aveva ordinato la loro eliminazione, li avrebbero sostituiti altri prigionieri di guerra, razzialmente puri. Quel terribile giorno di febbraio le SS portarono a termine quello che secondo loro sarebbe stato l’ultimo definitivo carico di carne umana per i forni di Auschwitz.

A Berlino però un gruppo di ebrei venne separato dagli altri e rinchiuso a Rosenstrasse. Erano ebrei imparentati con “ariani”.

Ora, ci sono molte pagine di eminenti storiografi che raccontano come gli ordini di Eichmann e compagni fossero eccezionalmente “clementi” nei confronti di queste persone e che nessun nazista li avrebbe portati ai treni.

Ma lasciamo da parte questa storiografia ex-post e pensiamo invece alle persone che quel mattino ricevono la notizia che i loro mariti, padri, figli sono stati catturati. Degli ordini “clementi” di Eichmann non sanno niente. Sanno senz’altro che chi va col treno a Est non torna più. Sanno benissimo che chi osa alzare la testa contro il partito quella testa la perderà (la decapitazione era una delle pene più scontate per i dissidenti politici).

Hanno paura, non serve certo uno storiografo per dirlo. Ma sono anche innamorate. Sono le mogli, le madri, le figlie di quegli uomini imprigionati. Sono anni che resistono al loro fianco subendo ogni sorta di ingiuria, violenze fisiche e verbali, perché loro, ariane, condividono il tetto con un sub-umano. Hanno sempre saputo che potevano perderlo.

Ma ora, quando la possibilità diventa concretezza, cosa fare? Chissà quante volte ci hanno pensato, di giorno e di notte, in quegli anni, vissuti sempre come se ogni giorno fosse l’ultimo, l’ultimo prima della deportazione, del campo atroce, del gas letale. Prima della morte amministrata burocraticamente ed efficientemente dallo Stato sovrano.

 

Rosenstrasse ufficio comunita ebraica

Il luogo in cui si trovava l’Ufficio amministrativo della comunità ebraica di Berlino

 

La Protesta delle donne di Rosenstrasse

A una a una, come “galline spaventate” (dice una delle testimoni) cominciano a comparire sulla Rosenstrasse: non si conoscono affatto, ma si prendono subito a braccetto e cominciano a camminare insieme avanti e indietro, fissando quelle finestre buie, quella porta chiusa. A volte una urla: “ridatemi mio marito”, “ridatemi mio figlio”. Ma soprattutto aspettano in silenzio, e sono sempre di più.

Donne (e qualche uomo) di ogni estrazione sociale, baronesse ed operaie, intellettuali ed analfabete. Alla fine erano circa 6000. Non sollevano striscioni, non espongono cartelli. La loro è non è una resistenza politica, ma una resistenza del cuore. Non si sentono eroine, men che meno coraggiose: si sentono mogli e madri e figlie normali che sono venute semplicemente a riprendersi la loro famiglia. Sono terrorizzate dalle SS. Ma ancora di più dall’idea di tornare a casa da sole.

Dopo due settimane il portone di Rosenstrasse si apre e gli uomini che vi erano rinchiusi vengono liberati (25 per errore erano già stati mandati ad Auschwitz, ma in virtù del loro status particolare erano stati tenuti separati dagli altri ebrei e poi rimandati sani e salvi a Berlino).

Nessuno saprà mai se a salvarli fu la banalità del bene. Se fu il coraggio di quelle donne tedesche che sfidavano la macchina omicida del partito.

Gli storiografi dicono che quegli uomini, essendo sposati o parenti di donne ariane sarebbero stati comunque risparmiati ed erano trattenuti a Rosenstrasse solo per scegliere fra loro nuove figure amministrative che avrebbero sostituito quelle che stavano andando a morire. Sarà certo vero (?) Vero è anche però che le donne che camminavano in silenzio, a braccetto nella Rosenstrasse non vennero né fermate né arrestate.

Il partito, che stava subendo le conseguenze delle sconfitte militari, era sempre più debole, ma proprio per questo aggressivo, come un cane ferito e rabbioso. Per qualche giorno si può sottovalutare la protesta di quelle “femmine” (sappiamo che per i Nazisti le donne erano poco più che uteri– sforna – soldati), ma nel tempo la loro resistenza si fa intollerabile. Goebbels nei suoi diari la liquida con la parola “spiacevole”. La soluzione più semplice, per evitare uno “spiacevole” contagio, è senz’altro liberarne i mariti, i padri, i figli.

Rimane il sospetto che il bruto non lo si sconfigge con le botte e con le urla (che sono le sue armi naturali) ma con il silenzio e la gentilezza del cuore. Se non altro le donne di Rosenstrasse hanno dimostrato che il partito non aveva ancora lavato il cervello di tutti i tedeschi.

 

Rosenstrass Protest film

By Margarethe von Trotta – Rosenstrasse Film, CC BY-SA 4.0, wikimedia

 

Il “memoriale nascosto”

La resistenza di queste donne però è stata per molto tempo sottaciuta, relegata a uno degli episodi minori della seconda guerra mondiale. Forse perché gli ebrei che vennero salvati erano solo pochi privilegiati e ben più tragica fu la sorte di chi non aveva parenti ariani dietro cui proteggersi. Forse perché, come suggerisce arguto Gad Beck, testimone diretto di quegli eventi, “nessuno si è occupato di quella vicenda perché la stessa possibilità di una protesta avrebbe finito per privare i tedeschi della loro pace interiore”. Forse non era vero che protestare non era possibile. Forse era solo pericoloso, scomodo, “non – preferibile”.

Oggi a ricordare gli eventi di quei giorni rimangono un pilastro rosa – del tutto simile a quelli per le affissioni teatrali/cinematografiche/pubblicitarie – che segna il luogo fisico dove si trovava l’edificio utilizzato come prigione temporanea dalle SS. E una scultura, un po’ lugubre a dire il vero, che Honecker fece collocare in un misero parchetto poco distante. La scultrice, Ingeborg Hunziger, ci presenta il “Blocco delle Donne” con toni marziali, volti guerreschi, corpi massicci, perché, ancora una volta, non è semplice ammettere che delle semplici “galline spaventate” riuscirono a strappare una piccola vittoria contro il Reich. Dietro però una incisione: “la forza della disobbedienza civile, il vigore dell’amore sconfigge la violenza della dittatura”.

Fare parlare questi luoghi “timidi” e quasi dimenticati della storia berlinese è senz’altro uno degli aspetti più affascinanti del nostro lavoro di guide, ed è per questo che ci piace entrare nell’antico quartiere ebraico da questa stradina, perché è talmente facile poi farsi distrarre dal luccichio delle vetrine, i bar alla moda, le gallerie d’arte sofisticate. Eppure queste stradine e cortiletti berlinesi fremono di infinite storie, a volte tragiche, a volte bellissime, che reclamano di essere raccontate e mai più dimenticate.

 

Rosenstrasse Memoriale Protesta

By Avi1111 dr. avishai teicher – Own work, CC BY-SA 4.0, wikimedia

 

Il nostro tour nell’antico quartiere ebraico di Berlino

Potete scoprirle insieme a noi in una delle nostre passeggiate nel quartiere ebraico, in cui lasceremo che vi incanti il contrasto fra le luci di oggi e le ombre di ieri e proveremo a ridare voce a tutti quelli che la Grande Storia ha ignorato.

Lascia un commento





cinque × 3 =