Rappresentare il Vuoto lasciato in Europa dagli omicidi perpetrati dagli uomini e le donne nazionalsocialisti non è un compito facile, perché il Vuoto di per sé sfugge a ogni possibilità di figurazione.

La memoria esige di essere presente nella vita della città, ma al tempo stesso vieta ogni “monumentalizzazione”. Gli artisti chiamati a realizzare i “memoriali” in Germania hanno perciò quasi tutti scelto di sottomettere la propria arte al baratro, e sparire per lasciare posto alla riflessione e l’ammonimento. Le loro opere sono accumunate da una struggente invisibilità: non si possono vedere, ma in qualche modo ci chiedono tutte di “partecipare”.

 

Estetica del ricordo: i monumenti invisibili del quartiere ebraico

Visitando il Quartiere Ebraico di Berlino, colpito duramente dalle vicende di quegli anni, si possono incontrare alcuni esempi di opere d’arte che hanno scelto di essere invisibili per non suggestionare il nostro sguardo, ma per colpirci proprio con le loro assenze: la “Missing House” di Christian Boltanski e “ Der Verlassene Raum” di Karl Biedermann.

A inizio anni novanta, l’artista francese Boltanski (1943-2021) era professore ospite alla Hochschule der Kuenste di Berlino, una città, ai tempi, ancora segnata dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Il Quartiere Ebraico poi, che era stato fino all’1989 nel settore Est, era rimasto come congelato nel tempo: case in rovina, tetti esplosi e squarci di bombe.

Passeggiando lungo la Grossen Hamburger Strasse, Boltanski nota un buco in mezzo a due case, all’altezza del civico 15/16: proprio alla fine della guerra una bomba degli alleati aveva colpito quell’edificio che era bruciato completamente in una notte.

 

I monumenti invisibili: La casa mancante

Boltanski si incuriosisce subito per quel vuoto singolare e comincia a fare ricerche: vuole scoprire chi abitava in quella “casa mancante”, chi era ancora lì la notte del bombardamento, chi era già scappato e chi invece era stato deportato dai nazisti qualche anno prima.

 

Missing House Quartiere Ebraico

 

Ora, per chi non conosce bene il quartiere, questo vuoto si trova a pochi passi dal più antico cimitero ebraico di Mitte (cimitero che i Nazisti hanno violato e cancellato nel 1943), all’inizio di quella che viene chiamata “la via della Tolleranza”.

Qui infatti abitava una comunità mista di cittadini ebrei e non, e ancora oggi si possono trovare, oltre agli edifici che testimoniano la presenza degli Ebrei in città, la chiesa protestante Sophienkirche e qualche metro più in là l’ospedale cattolico dedicato alla patrona di Berlino, Sant’Edvige.

Tre religioni che coesistevano una accanto all’altra, segno della compattezza del tessuto sociale berlinese prima dei veleni seminati dalla propaganda nazista (ricordo anche che il partito si forma a Monaco, nel sud della Germania, e “attacca” la capitale a fine anni venti inviandoci forse il suo più grande manipolatore: Joseph Goebbels).

Boltanski riesce a scoprire i nomi delle persone che abitavano al 15/16, il lavoro che svolgevano, il giorno del loro compleanno, quello della loro morte: chiede che quel vuoto non venga mai più riempito, che lì rimanga per sempre questa “Missing House”, e sulle due desolate pareti tagliafuoco affigge semplicemente delle placche (molto simili alle affissioni funebri ancora in uso in alcune città italiane) che riportano piano per piano il nome degli inquilini, la loro professione e le date di inizio e fine della loro vita.

 

Sophienkirche Quartiere Ebraico

 

Quando i politici parlano della guerra commentava l’artista “citano sempre i numeri: ad esempio, sono morti in 3000, ma questa è solo una mezza verità. Uno di quei soldati amava giocare a calcio, uno si era appena sposato, un altro aveva appena compiuto 19 anni. Non guardate quel numero come un 3000, ma come un 1+1+1+1+1+1+1… tutti con le proprie uniche esistenze, i propri sogni e i propri bisogni”.

Esiste, secondo Boltanski, una “mitologia individuale” che si deve contrapporre alla “mitologia della Historia” (con l’acca maiuscola!): 6 milioni di ebrei sterminati è un numero che impatta contro il nostro cervello e ci fa ammutolire, scoprire invece come si chiamava uno di loro, che magari è nato proprio il nostro stesso giorno o faceva il nostro stesso lavoro, ci aiuta a ricordare (dal latino: “re + cor, cordis” riportare nel cuore).

 

I monumenti invisibili: la stanza abbandonata

Continuando la nostra passeggiata lungo la Via della Tolleranza, potremmo a un certo punto svoltare e finire nella quieta Koppenplatz, che si apre tra i bei caseggiati restaurati dopo la riunificazione tedesca: ci saranno bambini che giocano (indipendentemente dal meteo) e qualcuno che legge un libro seduto su una panchina, in mezzo al parco un tavolo e due sedie, una caduta.

Non fossimo in uno dei quartieri più chic di Berlino potremmo pensare che si tratti di mobili “zu verschenken” (i berlinesi quando vogliono disfarsi di qualcosa lo portano semplicemente in strada con un bel cartello: in regalo.

Costa meno che chiamare la nettezza urbana). Invece qui c’è qualcosa che non va: i mobili sono leggermente più grandi delle dimensioni reali e, a ben guardare, non sono di legno. Una stanza vuota, abbandonata in fretta e furia o, forse, con violenza. È “Der Verlassene Raum” dello scultore berlinese Karl Biedermann (1947).

 

Memoriale Der verlassene Raum Berlino

Foto di Achim Raschka CC BY-SA 3.0

 

Anche qui l’artista sceglie di non rappresentare, anzi di segnalare crudamente le assenze: assenti sono le persone che abitavano in quella stanza (sono scappate? Sono state deportate? Uccise?), assenti sono le persone che le hanno prese o percosse o rapite… Ci siamo solo noi a testimoniare un crimine che nessuno può ricordare, vuoi perché è morto, vuoi perché ha cambiato cognome e ora vive in una villa in Cile.

C’è una bellissima parola tedesca per raccontare quella sensazione di “spaesamento” che la camera abbandonata può evocare: Unheimlich. Un qualcosa di familiare eppure sinistro, un qualcosa che potrebbe essere normale (un tavolo, una sedia buttata), ma che di sicuro non lo è.

Freud ci ha scritto un saggio famosissimo (“Das Unheimlich”, 1919) in cui segnala un fatto estremamente interessante: “un-heimlich” è il contrario di “heimlich”, che significa al tempo stesso “familiare” e “nascosto”. Questa strana, indefinibile sensazione angosciosa nasce quindi quando qualcosa che dovrebbe essere tenuto segreto, dimenticato o ben protetto tra le cose di casa (chiuso negli armadi o nei cassetti) improvvisamente affiora.

Ora, nulla ci vieta di passeggiare spensierati per il quartiere ebraico (o in tutta Berlino), con un bel gelato in mano, curiosando nelle gallerie d’arte contemporanea o nelle vetrine degli stilisti più chic. Conosciamo tutti la storia del Terzo Reich e possiamo tranquillamente lasciarla chiusa in uno degli archivi della nostra mente mentre ci godiamo la città.

Ma sono convinto che sia proprio il soffio invisibile della storia, che si manifesta all’improvviso nell’opera di un artista che appare, a sorpresa, nel nostro cammino, a rendere questa città così affascinante. Perché assolutamente un-heimlich.

 

Tour in italiano a Berlino nell’antico quartiere ebraico

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